Ormai completamente sgominata la banda di Melchiorre, nel corso del 1864 non si registrarono azioni brigantesche. Gli unici a rimanere ancora latitanti erano Ippazio Ferrari Mannanca, Vincenzo Barbaro Peparussu ed Antonio Sansò Chetta, che proprio nelle circostanti contrade di Villa Picciotti avevano ricondotto il loro spostamenti. Nel paese, infatti, numerosi continuavano ad essere coloro che ancora serbavano idee retrive, specie negli ambienti religiosi di Villa Picciotti, dove spiccavano le figure dei sacerdoti Giuseppe Sabato, Pasquale De Simone e Giuseppe Muja. Questi, dal pulpito della chiesa di S. Maria della Lizza, non avevano mai smesso di lanciare anatemi contro il nuovo ordine politico e le loro omelie furono giudicate talmente pericolose per la pubblica sicurezza, che neanche due anni più tardi vennero tutti arrestati e condannati al domicilio coatto. Tra loro spiccava per la sua tenacia il sacerdote Sabato, che dal Sottoprefetto di Gallipoli fu senza mezzi termini definito: “Retrivo, clericale, uomo avverso all’attuale ordine di cose, che spenderebbe tutto il suo patrimonio per ostacolare il Governo. Insinuatore indefesso delle masse contro le libere istituzioni, massimo censore di tutti gli atti governativi alterandone la forma e la sostanza. Individuo pericolosissimo e perciò già arrestato”.
Tuttavia, accanto all’azione sobillatrice di taluni, si contrapponeva quella dello Stato, in questo caso portata avanti dal 28enne maestro di scuola Luigi Sancez, Luogotenente della Guardia Nazionale di Villa Picciotti, che nel tentativo di assicurare alla Giustizia quei paesani, si rese artefice di un’astuta strategia. Con la promessa di ricompense, nel corso di diversi mesi riuscì a raccogliere tutta una serie di informazioni sui luoghi dove i ricercati erano soliti soffermarsi, sui loro spostamenti e i luoghi d’incontro. Fu così che Sancez, il 5 agosto del 1864, venne messo al corrente dal suo fidato milite Salvatore D’Aprile, della confidenza fattagli da una donna; ossia che uno dei briganti era solito recarsi in un preciso giardino in contrada Rocci. Era proprio qui, infatti, che il Chetta si ritirava per trascorrere le ore più calde della giornata e talvolta capitava che lo raggiungessero anche gli altri due. Il Luogotenente, nell’organizzare la missione, sapeva molto bene come uno dei maggiori ostacoli fosse il pericolo che i briganti venissero preventivamente avvisati da delle spie, che si sospettava fossero annidate non solo fra la popolazione, ma anche fra gli stessi militi nazionali. Per scongiurare una probabile soffiata e quindi il fallimento delle operazioni di cattura, si convinse di non rivelare a chicchessia i dettagli. Sabato 6 agosto il Sancez ordinò una delle tante perlustrazioni che vide protagonista la sola Guardia Nazionale di Villa Picciotti. Conteggiando il Tenente, si mise quindi su un drappello di ben diciotto uomini, cui si aggiunse come volontario il calzolaio 32enne Pietro Romito, in qualità di esperto cacciatore.
Il Tenente, dopo aver volontariamente sparso la voce nel paese al fine di eludere l’opera di delazione, ordinò a dodici dei suoi militi di andare in perlustrazione nelle lontane contrade di Metriano, Guardianova, Colline ed Arpa. Fece invece rimanere con sé il volontario Romito e cinque dei suoi uomini più fidati, fra i quali il 30enne Salvatore D’Aprile, cui diede il segreto incarico di uscire alla spicciolata da Villa Picciotti senza destar sospetto e quindi di dirigersi ognuno per conto suo alla volta di masseria Iala. Lì sarebbero successivamente stati raggiunti dallo stesso Sancez e sempre in quel luogo, alle ore undici in punto, dovevano a loro volta sopraggiungere i nazionali in precedenza partiti in pattugliamento. Con la truppa al completo, il Sancez ordinò: “Marciamo schierati in direzione di contrada Rocci!”. Fu così che, nel giro di pochi minuti, giunsero a qualche centinaio di metri di distanza dal giardino di un certo sig. Monittola; un fondo provvisto di ‘ngegna e privo di recinzione. Qui il Tenente fermò suoi uomini e ponendosi di fronte ad essi in ultimo rivelò: “Siamo qui per catturare il brigante Chetta solito a intrattenersi in quel giardino! Dividiamoci in due sezioni per accerchiare la zona!”. Dopo aver composto i gruppi, soggiunse: “Voi raggiungerete il punto attraverso la strada che da Villa Picciotti porta a Tuglie, noi dalla parte opposta attraversando gli oliveti!”, ed imbracciati i fucili incominciarono ad attuare il movimento a tenaglia. Giunto a ridosso dell’obiettivo, il primo drappello incomiciò ad incedere lentamente, dislocando a distanze sempre più larghe e regolari i propri componenti. Ignari di tutto e seduti all’ombra di un grande albero di fico, Chetta, Mannanca e Peperusso erano intenti a far merenda con dei meloni, ma subito insospettitisi da qualcosa di strano, recuperarono in fretta i fucili e si misero in allerta scrutando in ogni dove fra la vegetazione. Si accorsero quasi subito della presenza di alcuni militi. Senza pensarci su, i tre all’istante si diedero alla fuga e per evitare di essere inseguiti in blocco ognuno prese una via di fuga diversa. Fra essi Peperusso si mosse in direzione dell’attiguo agrumeto e dopo un breve tratto di corsa, vi si internò scavalcandone il muretto a secco che lo cingeva. Proprio in quel frangente venne adocchiato dal 25enne sergente Cacciapaglia, che all’istante si mise ad inseguirlo gridando: “All’armi! All’armi!”. Il Barbaro proseguì lesto la sua fuga, non sapendo tuttavia che quella zona era controllata dai nazionali a seguito delle manovre di accerchiamento. Un milite in particolare, il 32enne Giuseppe De Simone, vedendo il brigante con il fucile in mano venirgli incontro inseguito da un suo compagno, gli gridò contro intimandogli: “Lascia l’armi! Arrendetevi!”. In quei momenti concitati il grido d’allarme lanciato dal Cacciapaglia e dal De Simone attirò gli altri militi che erano dall’altra parte del giardino, i quali si posero anch’essi ad accorrere per catturare il Peperusso. Il Barbaro tuttavia, nonostante avesse compreso di ritrovarsi solo ed accerchiato, temerariamente proseguì la sua fuga incurante del fatto di essere ormai sotto tiro. Nel suo incedere volse per pochi istanti lo sguardo verso il De Simone, che ormai si trovava a pochissima distanza da lui con il fucile spianato. Lo riconobbe e guardandolo negli occhi quasi gli supplicò: “Giuseppe non mi sparare, altrimenti ti devo far fuoco!”. Giuseppe non sparò e rimanendo immobile si limitò solo a seguire con lo sguardo il passaggio del suo compaesano, ma una volta che questi lo oltrepassò, il milite ben appostato dietro un albero di arancio, prese accuratamente la mira ed esplose a pochissima distanza il suo fucile alle spalle del Barbaro; il colpo non fallì ed andò a segno ferendo Peperusso. Il brigante accusò il colpo. Un proiettile lo aveva colpito ad una gamba. Dolorante, impossibilitato a fuggire ed ormai spacciato, non volle comunque arrendersi e impavidamente andò incontro al suo destino. Prese il fucile, si voltò e scaricò l’arma contro la forza che ormai gli era quasi addosso. La rosa di pallini investì in pieno cinque militi ed alcuni di essi caddero a terra feriti. Vista l’audacia del loro compaesano, ancora in piedi e pronto a tutto, due nazionali, il 33enne Gaetano Raheli e il Cacciapaglia, a colpo sicuro gli scaricarono contro i loro schioppi. Inesorabilmente uno di essi andò a colpirlo in pieno. Vincenzo Barbaro stramazzò a terra ferito gravemente, mentre il suo fucile scivolando dalle sue mani, finì per terra a poca distanza dal suo corpo. Alle grida di dolore di alcuni dei militi feriti, si aggiunsero quelle lancinanti del Peperusso, al quale un proiettile aveva trapassato da parte a parte il busto sul fianco destro. Sopraggiunto il resto dei nazionali, venne disarmato ed impietosamente legato. Dal collo gli fu tolta la borsa di pelle che aveva con sé e che conteneva la munizione del fucile alla fulminante. Grondante di sangue, fu condotto immediatamente a Gallipoli, dove fra gli spasmi e dopo una rudimentale medicazione venne rinchiuso in una cella del castello. Le sue pessime condizioni fecero sì che molti dei secondini si convincessero di come mai avrebbe potuto superare la notte. Tutto questo mentre gli altri due suoi compagni, il Chetta ed il Mannanca, riuscirono miracolosamente a forzare l’accerchiamento, ad aprirsi un varco a colpi di fucile ed a disperdersi fra le campagne. Furono inseguiti invano dai militi Francesco Bidetti, Carlo Sancez, Fracescantonio Raheli, Salvatore D’Aprile e dal cacciatore Pietro Romito, i quali poterono soltanto recuperare un fucile da loro abbandonato ed un cappello nero volato via durante la corsa. Al fine di acquisire anche le testimonianze dei militi feriti, il giorno successivo il Supplente Giudiziario di Villa Picciotti si condusse nelle loro abitazioni e per meglio constatare le loro condizioni di salute si fece accompagnare da due periti medici: il 36enne flebotomo Francesco Calò ed il 40enne medico cerusico Andrea Giannelli, già a sua volta Comandante della stessa Guardia Nazionale. Il primo ad essere visitato, ancora convalescente nel letto, fu il 33enne Francesco Orlando, le cui condizioni apparivano decisamente più gravi rispetto agli altri. Gli furono così trovate ventotto piccole ferite di forma circolare distribuite su tutta la parte anteriore del corpo, dalla faccia sino alle gambe. Questo rese evidente alle autorità come l’arma del brigante Peperusso fosse stata caricata a pallettoni, chiamati in gergo anche ciceroni, di quelli che si utilizzavano per la caccia ai tordi. Le ferite, pur essendo numerose, non furono giudicate pericolose per la vita dello stesso; tuttavia quattro di esse, tre nella regione del pube ed una sull’articolazione del ginocchio, avendo procurato delle infiammazioni, causavano un impedimento al lavoro di circa otto giorni. Gli altri militi, l contrario, registrarono ferite simili ma di lievissima entità sia per il numero, che per i punti in cui esse si trovavano. Fra essi il milite 25enne Celestino Scorrano riportò semplicemente tre piccole ferite: nell’indice e nel dito medio della mano destra e un’ultima sul ginocchio sinistro. Solo due il 32enne De Simone, la prima al di sopra del ginocchio sinistro e l’altra a metà della gamba destra. Ben più gravi invece erano le condizioni di Vincenzo Barbaro, il giovane 25enne venne visitato dai periti medici gallipolini Rocco Mazzarella e Emanuele Barba, che l’8 agosto e quindi due giorni dopo lo scontro a fuoco, osservarono il detenuto stoicamente resistere ai dolori. I due dottori constatarono ’esistenza di una ferita che da parte a parte attraversava il torace nella porzione laterale inferiore destra. Il foro d’entrata aveva una circonferenza di circa 7 mm mentre quello di uscita posto in linea retta nella parte opposta del corpo alla distanza di circa quindici centimetri, misurava un diametro di 5 mm. Entrambi i fori della pelle apparivano fortemente suppuranti e con lacinie sporgenti. Nonostante non fossero interessati tessuti nobili, i periti medici tuttavia dichiarano la ferita talmente grave da mettere a repentaglio la vita dello stesso detenuto, il quale tra l’altro, aveva diverse altre piccole ferite incrostate sul piede sinistro, nella gamba destra, e nella regione auricola; nonostante ciò, l’impressionante tempra mostrata dal Peperusso, gli consentì di sopravvivere, rendendo agli occhi dei medici quasi un miracolo la sua stessa guarigione.
Riguardo i fatti criminosi commessi dai componenti della banda di Picciotti a partire dal 1861, un’ulteriore sentenza della Corte d’Assise di Lecce emessa in quell’anno in data 28 maggio decretò:
“Condanna i nominati Ippazio Gianfreda e Vito Morciano alla pena di lavori forzati per la durata d’anni 16; Raffaele Capoti alla medesima pena de’ lavori forzati per la durata d’anni 12, Cosimo Negro alla ripetuta pena de’ lavori forzati per anni 10. Condanna poi Luigi Stanca e Giorgio Quarta alla pena della reclusione per la durata di anni 4. Condanna inoltre i summentovati alla interdizione dai pubblici uffizi ed all’interdizione legale durante la pena principale; e scontata questa li condanna alla sorveglianza della Pubblica Sicurezza Gianfreda e Morciano per la durata di anni 6, Capoti per la durata di anni 5; Negro per la durata di anni 4 e Stanca e Quarta per la durata di anni 3. Condanna inoltre i suddetti solidarmente alle spese del giudizio a pro dell’Erario dello Stato”. Di contro, il Mannanca ed il Chetta proseguirono la loro latitanza abbandonando tuttavia definitivamente la lotta armata. La clandestinità del Ferrari perdurò sino alla vigilia di Natale del 1871, in quel 24 dicembre infatti venne arrestato dalla forza, avvenimento che poco dopo spronò lo stesso Sansò a consegnarsi a sua volta volontariamente alle autorità150. Il processo istruito a loro carico giunse a sentenza il 20 luglio del 1872 e fu proprio Antonio Sansò a subire la pena più
pesante, i lavori forzati a vita, poi convertiti a 24 anni il 28 gennaio 1890, al contrario
di Ippazio Ferrari al quale venne inflitta la pena di sette anni di reclusione151.